Killers of the Flower Moon

di Erminio Fischetti

L’antica nazione degli indiani Osage è stata per lungo tempo la popolazione con la maggiore ricchezza pro-capite al mondo. Dopo che gli Stati Uniti l’aveva confinata in un angolo di terra isolata e rocciosa dell’Oklahoma, credendo che non valesse nulla. Scoprendo dopo alcuni anni invece essere uno dei più ricchi giacimenti di petrolio. Gli indiani ebbero così gli introiti dei diritti di estrazione con i quali poterono comprare case di lusso, mandare i figli nelle più importanti scuole americane ed europee, fare una vita agiata. Non tutti però potevano gestire il proprio denaro perché considerati inabili a farlo. Cosicché spesso avevano persone bianche che lo facevano al posto loro, nominate come tutori. Spesso queste figure li truffavano, gonfiavano il valore spese e molti non diedero loro la possibilità di acquistare beni di prima necessità. Li truffavano e derubavano. Improvvisamente molte delle famiglie indiane fra le più ricche cominciarono a morire di morte violenta. Siamo in piena età proibizionista, dell’industrializzazione selvaggia, prima della grande crisi del 1929, è appena nata l’FBI. È in questo contesto che si muove la storia raccontata nell’ultimo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, tratta dall’asciutto e chiarissimo saggio di David Grann, Gli assassini della terra rossa, edito da Corbaccio e finalista al National Book Award. Sia il libro che il film affrontano nel dettaglio le vicende di Ernest Burkhart, un veterano della Grande Guerra che si trasferisce in Oklahoma, alla corte dello zio William Hale, un importante proprietario terriero della zona, che si autoproclama amico degli Osage ed è figura influente di quel lembo di terra. Ernest ha sposato per amore, almeno così dice lui, Mollie, un’indiana Osage erede di una delle più importanti fortune petrolifere. Pian piano intorno a Mollie tutti cominciano a morire di morte sinistra e il più delle volte violenta: la sorella Anna, la sorella Minnie, la madre Lizzie… Mollie, che è diabetica, capisce presto che prima o poi toccherà a lei…

Killers of the Flower Moon è un quadro in costante movimento per tre ore e mezza (206 minuti per la precisione), che passano senza alcuna fatica (diciamolo!), e segna il ritorno di Martin Scorsese alla regia di fiction, dopo il meno riuscito The Irishman e dopo le parentesi documentaristiche della miniserie di Netflix, Fran Lebowitz: una vita a New York, e del lungometraggio Personality Crisis: One Night Only (a quattro mani con Davi Tedeschi). Il regista newyorkese prosegue il suo racconto a tutto tondo della Storia americana dalla parte dei cattivi, e quindi della realtà non edulcorata della retorica epica, fotografando con lucidità un piano criminale che non coinvolge solamente chi lo commette, ma la stessa anima del Paese, razzista, violenta, cinica. Dall’altro lato c’è la prospettiva di Mollie, che mai sembra prendere pienamente consapevolezza di chi le sta facendo del male, almeno in apparenza, salvo forse saperlo da sempre nel profondo del suo cuore. È lei l’anima straziata, contraltare della narrazione dei criminali, che emerge un poco alla volta, trovando il suo posto nella Storia di un Paese carnefice, che ha sempre avuto difficoltà a riconoscere pienamente i volti della sua carneficina. C’è poi, come ogni film di Scorsese che si rispetti, una terza prospettiva, quella dello Stato, fatta delle fattezze di Tom White (interpretato dal sempre ottimo Jesse Plemons), agente dell’FBI che, dopo anni e anni di richieste di aiuto da parte delle vittime, finalmente giunge in quella rossa terra desolata per sciogliere il bando della matassa.  

Un’opera ricca ed elegante. Densa di essenza cinematografica: regia, montaggio, fotografia, musica, suoni e recitazione. Se Robert De Niro, nelle vesti di Hale, e Leonardo DiCaprio, in quelle di Burkhart, fanno egregiamente il loro lavoro, perfettamente in linea con la caratterizzazione della gamma espressiva dei loro ambigui personaggi, il valore aggiunto è senza dubbio quello di Lily Gladstone (già apprezzata nell’indipendente Certain Women di Kelly Reichardt), una Mollie Burkhart in perenne tensione emotiva, costruita attraverso il linguaggio espressivo del silenzio e della fedeltà, del sospetto e della paura. La sua una prova attoriale magistrale. Come magistrale lo è tutto il film. Un racconto essenziale dell’America.

In sala da oggi, distribuito da 01.

Dogman

di Erminio Fischetti

Intenso, avvincente, emozionante, profondamente disturbante, capace di scavare nell’abiezione e nell’orrido senza lasciare nulla di implicito, grottesco, grandguignolesco, farsesco, eccessivo, camp, queer, con un gusto decisamente vintage, risalente almeno agli anni Ottanta, nella rappresentazione dell’omosessualità, una colonna sonora facile ma azzeccatissima e un protagonista formidabile, lanciatissimo e pluripremiato: Caleb Landry Jones è Douglas, un uomo solo al mondo se non fosse per i suoi amati e fedelissimi cani, paralizzato per colpa della violenza cieca e bigotta del padre, una divina drag e un delinquente brillante ma dalla psiche fragile, che vive di espedienti. Dogman, di Luc Besson, acclamato a Venezia, in sala per Lucky Red, è interessante, abbastanza riuscito e comunque da vedere. Per palati forti.